05 novembre 2013

Il boccione di Halloween

Il boccione di Halloween
“Brindiamo al weekend lungo!” disse Giuseppe.
“Sì, ma non si fa un brindisi con l’acqua!” obiettò Enrico.
“A me poi che cazzo me ne frega di Halloween! L’unica cosa che m'interessa è che domani sono a casa e mi faccio un bel ponte a Venezia.” Così Mario battezzava l’inutile festa di Halloween con i due colleghi.
Quindi Mario propose un altro brindisi per benedire il weekend a Venezia. Riempirono di nuovo i bicchieri con l’acqua del boccione. Era dissetante, buona, un bicchiere ne chiamava un altro. Il boccione era stato sostituito proprio quella mattina perché malfunzionante.
Giuseppe in polemica: “L’ultimo però, non voglio passare la mattinata in bagno." Poi scuotendo la testa pensieroso notò: "Comunque ha ancora uno strano sapore l’acqua, diverso da quello del boccione che è stato sostituito. Non è terroso, è più pastoso, muschioso.”
“Sì vabbè, è arrivato il minerologo.” Mario lo dileggiò.
”Guarda che è vero, non senti? E poi non sai che esistono anche gli assaggiatori di acque minerali? C’è l’associazione. Mi pare si chiami Adam”.
“Come Adam Kadmon, quello spostato di Mistero? Avete visto l’ultimo servizio sull’ennesimo avvistamento di un nano con l’ascia? A Perugia. I nani con l’ascia sono arrivati in Italia per decapitarci tutti”.
“Ancora con questi nani,” interruppe Enrico “forse era Gimli, quello de Il signore degli anelli… Comunque ora io vado a lavorare, a chiudere gli ultimi preventivi della settimana.”
Enrico si diresse verso il suo ufficio e così fecero Giuseppe e Mario, ognuno nel proprio.

In azienda c’erano solo loro tre, la segretaria Laura aveva preso una settimana di ferie e il capo nonché proprietario Andrea, un 35enne assetato di business, era andato a Napoli da un cliente. Probabilmente non sarebbe passato dall’ufficio quel giorno.

Il sole timido ma splendente di autunno filtrava attraverso le persiane a listelli e formava una composizione moderna sul pavimento e sulla scrivania.
Giuseppe guardava quello strano gioco di luci e di ombre, gli sembrava che si muovessero al ritmo del suo respiro; fissandole all’improvviso vide comporsi l’ombra di sua madre. La riconosceva per via di quella sua massa importante, davanti e dietro, la silhouette era la sua, inconfondibile.
Squillò il telefono, l’ombra scomparve.
“Pronto, JDesign Studio.”
“Ciao Giuseppe sono tuo padre.”
“Papà?”
“E’ successo un casino al lavoro, mentre pulivo l’impastatrice si è accesa, la grata protettiva si è staccata e ci sono finito dentro! Porco mondo! Mi sta stritolando, ho perso un braccio e una gamba! Vienimi a prendere! Ti prego! Sono ancora dentro, sto morendo dissanguato!”
Giuseppe forse si era addormentato.

Erano quasi le 13, Enrico fissava il muro. La sua espressione era di curiosità, nonostante si trattasse solo di un muro, spoglio oltretutto e di colore bianco.
Qualcuno lo chiamò da fuori:
“Ehi tu! Dico a te, chiuso in quell’ufficio di merda.”
Enrico osservò dalla finestra stupito, si stava rivolgendo a lui?
“Sì, sì, dico a te Enrico, non fare quella faccia, esci fuori o ti vengo a prendere io.”
Erano al primo piano, per entrare nello stabile bisognava avere una tessera magnetica o che qualcuno aprisse da dentro. Accettò la sfida, alzò le persiane e urlò che alle 18 e 30 si sarebbero potuti incontrare nel parcheggio per chiudere la questione. Il ragazzo era scomparso.

Ora del pranzo. Stomaci brontolanti e pronti per essere rimpinzati. Mario passò dagli uffici di Giuseppe ed Enrico: “Che dite ragazzi carbonara? Abbiamo tutto quello che serve.”
“Ottimo, io ci sto.”
“Ok, preparo io” aggiunse Mario.
Si stavano godendo un buon pranzo in un clima già festivo; certo mancava un buon vino, si limitarono quindi a bere acqua, che fa sempre bene.
Mario: “Ragazzi non avete idea di quello che mi è successo. Stavo ascoltando la radio e all’improvviso una voce, come un’interferenza, ha iniziato a minacciarmi, dicendomi che i nani con l’ascia verranno a farmi visita per affettarmi, scuoiarmi e fare tante saponette dal mio corpo.”
Enrico scoppiò a ridere: “Ancora con questi nani… forse ti sei addormentato, non ti sembra una buona spiegazione?”
Mario non replicò, era convinto di ciò che le sue orecchie avevano udito e non si era addormentato.
Enrico: “Io invece ho parlato con il fratello della mia nuova ragazza. Ci troveremo alle 18,30 nel parcheggio per parlare.”
Giuseppe: “Anche io credo di essermi addormentato, ho parlato al telefono con mio padre.”
Mario stupito: “Ma non è morto tuo padre?”
“Appunto” notò Giuseppe con una maschera di nostalgia e tristezza stampata sul suo volto.
Nessuno aggiunse più nulla. Calò il silenzio sulla tavola, sui piatti e sui bicchieri vuoti. C’era qualcosa di strano nell’aria. Dopo l’ultima sorsata d’acqua tornarono alle loro postazioni per le ultime quattro ore di lavoro della settimana, poi uno scoppiettante weekend all’insegna di Halloween.

Un missile colpì il palazzo di fronte, squarciandone un lato. Una massa di persone in fuga correva verso il loro stabile in cerca di salvezza. Correvano e guardavano Enrico appoggiato al vetro della finestra, con gli occhi sbarrati. Cercavano di costruire una colonna umana per arrivare alle finestre del suo ufficio, tutti uno sopra l’altro, come dei circensi ubriachi. Volevano entrare dentro. Erano zombie. Tirò un pugno alla finestra per spaventarli, la catena di creature sbavanti e puzzolenti crollò su se stessa. Fottuti zombie! 


Uscì dall’ufficio per andare a chiamare gli altri e barricarsi in cucina.

Mario alzò lo sguardo verso l’armadietto dove tenevano tutti i gadget per i clienti. Qualcosa batteva sulle ante. Lo aprì con cautela, dal buio, a piccoli passi, stava uscendo qualcosa. Indietreggiò istintivamente, perse l’equilibrio e cadde all’indietro.
I nani con l’ascia. Erano in 12. L’esercito dei 12 nani danzava intorno al suo corpo caduto e bloccato a terra, stagliuzzandogli la pelle.
Iniziò ad urlare, proprio in quel momento entrarono Enrico e Giuseppe che senza aspettare che si rimettesse in piedi lo trascinarono nella sala cucina.

“Che cazzo è successo…” chiese Giuseppe, piegandosi dalle risate. Risate isteriche.
“Non lo so,” rispose Enrico “e c’è poco da ridere, non ci capisco più nulla, chiudiamoci qui dentro e aspettiamo.”
“Ragazzi i nani con l’ascia!”
“Cosa cazzo dici Mario! Basta!”
Giuseppe tornò serio, era pensieroso, stava fiutando qualcosa: “C’è un po’ odore di…”
Mario sobbalzò: “Bruciato!”
Enrico individuò la causa: “E’ il forno a microonde!” Lo sradicò dalla corrente e lo lanciò dalla finestra, che però era chiusa. Lo rimbalzò.
“Mario! Apri quella cazzo di finestra prima che prenda fuoco anche io!”
Mario eseguì senza capirci molto della situazione. Il microonde volò dal primo piano, con la grazia che può avere un cubo di plastica e metallo. L’impatto fu emozionante. Il fornetto infatti atterrò su una BMW Serie 3, sfondando il vetro. Uno smacco al capitalismo, all’automotive e all’amore futurista per la cottura veloce.
Giuseppe inalò un grosso respiro e con una lucidità inattesa: “Dobbiamo calmarci signori. Aspettiamo. Stiamo in silenzio e vediamo cosa succede.”

Erano già le nove di sera. I tre malcapitati giacevano seduti e imbambolati sul divano, in uno stato tra l’allerta e il dormiveglia.
Il campanello suonò. Dalle immagini del videocitofono Enrico scorse tante figure, si muovevano, erano agitate. Fottuti zombie!
Nessuno si azzardò ad alzare la cornetta, tantomeno ad aprire.
Enrico iniziò a piangere, Giuseppe e Mario lo abbracciarono per tranquillizzarlo.

Andrea, appena rientrato da Napoli, venne chiamato dalla sorveglianza perché le luci degli uffici della sua azienda erano ancora accese. Disse loro che sarebbe andato a controllare lui stesso perché probabilmente c’erano ancora dei suoi dipendenti. E’ uno schiavista, pensò la guardia. Alla faccia degli straordinari.
Quando entrò nella sala cucina li tròvo avvinghiati sul pavimento, addormentati come bambini in una culla.

Si svegliarono tutti e tre nella stessa stanza, in ospedale.
Enrico volse lo sguardo verso la finestra, un missile illuminò il cielo e colpì l’ala Sud, il reparto di rianimazione.
Nella stanza irruppero 12 nani con l’ascia, ficcarono nel corpo di Mario tanti grossi aghi.
Giuseppe li osservava, sbellicandosi dalle risate, prendendo respiro a fatica tra una risata e l’altra.

Tutti e tre ebbero bisogno di un lavaggio del sangue, per la lavanda gastrica era troppo tardi.

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