14 marzo 2007

La morte e il pianto dei funerali

Una persona fa di tutto per onorare quello che in molti definiscono il dono della vita, si impegna, studia, cerca lavoro, lo trova, non sempre, lavora, giorno dopo giorno, ama qualcuno, lo sposa, o fa qualcosa di simile, a volte non gli basta e si fa anche l'amante, si compra l'auto che ha sempre sognato o che gli altri gli hanno fatto credere fosse il suo sogno, la casetta con mutuo millenario.
Questa è l'esistenza, il teatrino della vita, ma cosa succede se essa viene spezzata prima del tempo? Improvvisamente e senza appello? Magari a vent'anni nel week-end contro un muretto che costeggiava la strada nei pressi di una curva, o per un ictus, per un'emorragia celebrale.
Dove le condizioni di vita sono molto buone la morte diventa quasi innaturale, è il rovescio della medaglia; in fondo ridono anche i bambini africani senza scarpe e tra di noi sono sicuro che in molti direbbero “Come cazzo fa a ridere in quelle condizioni?” e una mamma aggiungerebbe “Mio figlio probabilmente piangerebbe dalla mattina alla sera.”
Avete presente poi un funerale a cui partecipano per lo più giovani? In quel caso la tristezza e l'amarezza raggiungono il punto più alto tra le esperienze negative che un uomo possa vivere.
Così come ridere è il miglior modo per andare in scena in questo magnifico e altrettanto ingannevole teatrino anche piangere ha il suo valore, soprattutto se lo si fa per empatia, per compassione e non per vittimismo. Significa avere il coraggio di rielaborare il dolore altrui e di farlo in parte proprio, è un modo per riflettere sull'esistenza e sul valore che diamo alle cose, riclassificare le priorità. Sono felice di piangere, sebbene Stephen King abbia scritto che "piangere era come pisciare via ogni cosa" (Le notti di Salem, pag.156).
Il funerale è uno dei pochi baluardi rimasti alla società occidentale che permette di riflettere in profondità sull'esistenza umana, di passare qualche momento nella contemplazione, distante dall'affanno quotidiano, dalla rincorsa quotidiana, da "il tempo non è mai abbastanza" ed io allora aggiungo "per fare che?"

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