26 settembre 2005

Jacob e Hope

Da “Un matto”, Fabrizio De André, 1971

“ Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza tra un villaggio che ride
e te, lo scemo che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro ”

Niente sembrava com’era...

Estate 1977, erano circa le tre e un quarto di notte, Jacob si svegliò di soprassalto, gli era parso di sentire un tonfo e il cigolare di una porta. Spalancò gli occhi ma l’oscurità lo avvolgeva, non poteva vedere nulla, era tutto sudato, cercava di tranquillizzarsi ma non ci riusciva, alle sue orecchie non era giunto più alcun suono se non quello del piccolo orologio a pendolo sul suo comodino,per fortuna pensò; questa del resto è la reazione di molte persone quando capita di svegliarsi nel bel mezzo della notte per un rumore, a volte non si ha il coraggio e la voglia di andare a vedere se è tutto a posto e allora si sceglie di stare con le orecchie più vigili che mai, sperando di non sentire più nulla; Jacob però non riusciva a riaddormentarsi, decise di alzarsi, si accorse mentre era seduto sul letto che il cuore gli batteva ancora forte e non accennava a rallentare; la lampada da notte non funzionava, si era rotta cadendo un paio di giorni prima. Finalmente in piedi camminò, come uno zombie, o come qualunque persona che cerca di trovare l’interruttore della luce nel buio muovendosi con le braccia in avanti per evitare spiacevoli sorprese; rischiò di perdere l’equilibrio pestando le ciabatte ma riuscì a ristabilirsi, tastando con le mani la porta e poi il muro finalmente accese la luce, un certo sollievo sembrò trasparire dal suo volto, diede un’occhiata alla stanza, si intravide nello specchio del comò e l’agitazione tornò come un maremoto inatteso, uscì dalla stanza nervoso, accaldato e con un martellante mal di testa, passò per il corridoio, prese dei fiammiferi e accese un paio di candele, poi improvvisamente si fermò.
"Non sono così", urlando "non lo sono", ancora "non voglio esserlo!", gridando più forte, aveva il viso infuocato, le vene del collo gonfie, il respiro frenetico, lanciava una serie di insulti ad alta voce, il tutto mischiato in un oceano di lacrime. La follia negli ultimi due mesi andava e veniva, con picchi di violenza sempre maggiori, il mal di testa e le convulsioni si alternavano a stati di incoscienza, di trance e di profonda tranquillità, apatia, passività.
Nella sola percezione dell'immagine che aveva Jacob di sé Jacob esisteva e non più in una vicina e costante relazione con gli altri i quali nella sua mente erano solo un ricordo lontano, su quale fosse la sua vera immagine egli lo sapeva bene, o per lo meno credeva di saperlo, a differenza di chi l'aveva sempre tralasciato in quegli ultimi anni della sua vita dopo un giudizio furtivo, la differenza tra ciò che era e ciò che vedeva nella sua mente non esisteva e nessuno era lì a fargli comprendere, a farlo riflettere, la sua follia derivava proprio dal non vedere sempre allo stesso modo quella che lui considerava la sua vera identità, mentre la gente si chiedeva e rispondeva superficialmente con sentenza preventiva per strada: “Che senso ha cercare di capire qual’è il proprio essere se si è matti?” aggiungendo “Che Dio l’aiuti”, visto che loro non ne avevano il tempo per farlo.
Se le persone normali si scompongono in tanti io, dei quali uno prevale e riesce ad amalgamare la maggior parte delle parti del proprio essere relegando ad anfratti della mente quelle meno socialmente fruibili, Jacob, nonostante non avesse fatto mai fatica a dire “Io sono...”, non riusciva ad identificarsi, una persona o tante persone era Jacob? il risultato è semplicemente ciò che la gente definisce uno scherzo della natura, un pazzo, una persona da rinchiudere in manicomio.
Se nella solitudine molti possono trovare risposte alle proprie domande più intime, per Jacob non era che la situazione migliore in cui potesse svilupparsi il processo degenerativo della sua mente, la distruzione era alle porte e nessuno si sarebbe più posto delle domande sul suo conto perché in società non c’è posto per tutti.
Lo specchio per Jacob diventava umano, nei tratti peggiori dell'uomo, lo scherno, l'odio, la tortura, anche se quello specchio era inanimato; ma un mondo non può esistere se esiste anche solo nella mente di una persona? Perché è proprio la mente della persona che permette quel transfert tra l’individuo e il mondo esistente, forse ciò che si definisce reale ed irreale è semplicemente ciò che è assodato per la maggioranza e non perché sia la verità assoluta; dunque su quale sia il mondo vero non potrebbe a buon ragione sorgere sempre un dubbio? Non è forse questo il risultato di anni e anni di riflessioni filosofiche, scientifiche, sociali, artistiche, dal dubbio metodico di Kant alla teoria della relatività di Einstein?
Così lo specchio sembrava divertirsi a deformare l'immagine di Jacob che lo fissava ore e ore per cercare di capire, ma ricadeva sempre nella stessa sensazione, di non sentirsi unico ma un insieme di personalità a cui non poteva dare alcuna forma di controllo e limitazione.
Erano lontani quegli anni della sua infanzia in cui le amicizie e la gente lo riempivano di gioia, nonostante fosse stato sempre considerato un po’ matto, nel senso buono del termine, era solito essere sfacciato ed irriverente verso tutti, una sincerità ed una velenosa ironia che gli creava parecchi nemici ma anche molti amici che a quel tempo gli erano fortemente legati e lo vedevano come modello, “sei un mito!” gli ripeteva spesso John, erano altrettanto lontani i tempi in cui il padre lo portava a vedere le partite dei “leoni zebrati” fino a undici anni, quei momenti dell’infanzia in cui aveva sognato di poter diventare un giorno un attore, quanto amava Ciarly Chaplin, voleva diventare proprio come lui, aveva già compreso allora come la vita si muovesse, un’altalena tra comicità e tragedia, queste due componenti della vita si mischiavano, cambiavano, si allontanavano, si riavvicinavano, questa era la sua interpretazione; lontana era nella memoria la madre, l’amore per lei era sempre stato intensissimo e per questo il padre aveva avuto inconsci atteggiamenti di gelosia verso il figlio, erano lontani i primi baci di Stella, la sua unica ragazza, il suo secondo amore, tutto ciò che era rimasto del passato era in quella casa isolata di campagna nella memoria cosciente e incosciente di Jacob. Così insieme ai ricordi aleggiavano sensi di colpa, il rapporto con la madre chiuso in un soffocante angolo della sua mente come dimenticato, rimosso eppure ancora così vivo, erano tutte ferite che continuavano inevitabilmente a sanguinare senza possibilità di redenzione.
"Tu vuoi distruggermi?" Jacob allo specchio e ridendo "Non ci riuscirai fottuto specchio", intanto Hope, il cane di Jacob risvegliatosi si grattò dolcemente gli occhi con le zampette, si avvicinò al suo padrone che era nel salone dove c'era il grande specchio che pareva triplicare lo spazio della stanza. Una stanza quasi sempre avvolta dall'oscurità, con una sola finestra non molto grande dalla quale entrava solo nelle ore di mezzo del pomeriggio, quando il sole batteva sul lato sud-ovest della casa, le pareti erano coperte completamente di quadri e di stampe di autori famosi e non, le candele illuminavano la zona dove c'era lo specchio e la sedia dove Jacob seduto rifletteva, meditava o forse era semplicemente in stand-by. Il cane scodinzolando si lasciò accarezzare, leccò festante le mani, poi si fermò di fronte allo specchio e muovendosi lentamente si osservò con molta curiosità, Jacob si alzò di scatto urlando: "Questo non è il mio cane? Dov'è il mio cane? Ridammi il mio cane se non vuoi andare in mille pezzi", il cane iniziò ad innervosirsi, la coda si irrigidì e rimase ferma come una colonna, Hope cominciò a girare intorno alla sedia, sempre più velocemente, per qualche minuto continuò, sembrava un rito demoniaco, finché non si stese a terra con gli occhi sbarrati, immobili, muovendo il torace su e giù con respiri brevi e sovrapposti, emettendo sottili lamenti con cadenza ipnotica.
Jacob aveva assistito alla scena ed era andato in cucina a prendere un coltello, accese la luce e per una attimo si fermò a guardare dalla finestra che si affacciava sul cortile, era una serata magnifica, con la luna che illuminava quasi a giorno, una sensazione di serenità e benessere gli aveva pervaso tutto il corpo. Dopo aver rivolto lo sguardo nuovamente in cucina inaspettatamente aveva trovato in un angolo dietro il tavolo, Hope che stava morsicando gli ultimi bocconi della cena della sera precedente, come faceva spesso la notte, lo accarezzò sulla testa, sul collo sulla pancia e si appoggiò con il corpo a terra giocandoci, finché stanco riprese il coltello lasciato sul tavolo della cucina per dirigersi nel soggiorno al secondo piano. Jacob intanto si chiedeva per quale motivo aveva un coltello in mano. Ricordò subito dopo ciò che era successo in soggiorno, iniziò a fremere dopo aver capito che Hope non poteva essere stato in cucina in quel momento, finché un fortissimo abbaio che proveniva da pochi metri di distanza da lui s'infilò tra i suoi pensieri. Jacob accelerò, sentendo passi brevi e rapidi dietro di lui diffondersi dalla scala, arrivò al piano del salone. Il rumore dei passi si era dissolto nel silenzio spettrale, ora Hope dormiva o almeno così pareva di fronte allo specchio, aveva però ancora un respiro affannoso, Jacob gli si avvicinò impugnando forte il coltello intenzionato ad uccidere Hope che intanto si svegliò e non comprendendo il pericolo e scodinzolando cercò di giocare con il padrone che sorpreso dall'atteggiamento del cane posò il coltello sul tavolino di fronte al camino e giocò un po' con il cane. "Bello allora come stai? Voleva che ti facessi del male? Invece non l'ho fatto, noi due saremo sempre amici, io e te siamo simili, anzi siamo la stessa cosa, tale cane tale padrone e viceversa, e qualcuno voleva dividerci, ma non c'è riuscito; ricordi come ci siamo conosciuti, che strano, era proprio destino, è solo un brutto momento, non bisogna preoccuparsi, e ora perché abbai? Smettila siamo solo io e te! Dai su Hope, non abbaiare".
Con un balzo improvviso Hope azzannò Jacob ad un braccio che con gli occhi pieni d'ira e insensibile al dolore andò a riprendere il coltello sul tavolo mentre il cane, ora calmatosi, si era accucciato davanti allo specchio fissandosi, Jacob lo scorse nello specchio e in un abbaglio lo vide rovesciato a terra in un lago di sangue.
All’esterno un gatto era fermo in mezzo al cortile godendosi la quiete notturna con quella luna sorridente e abbagliante e quel cielo limpido di stelle.
Ma dentro quella casa la violenza era scoccata, Jacob con le mani ghiacciate e tremanti di rabbia infilò, con sguardo soddisfatto ed iracondo, il coltello nella pancia del cane tagliandolo per una ventina di centimetri, e mentre il cane si contorceva lui lo scherniva: "Oggi sei stato un cattivo cane, è giusto che tu sia punito brutto cagnaccio, ti devo insegnare le buone maniere in qualche modo! E non mugugnare che tra poco tutto sarà finito", la sua violenza aveva raggiunto la forza di un uragano, in quell’impeto intravide un immagine di libertà, di sollievo, così si voltò e prese la sedia per distruggere lo specchio, lo scorse per un attimo, vide un uomo, in un flash, steso a terra con un filo di sangue uscirgli dall'orecchio, ma l'immagine terribile non lo fermò, la ragione e la logica da tempo erano stati smarriti, ormai nessuno più poteva fermarlo. Si sbilanciò come un ubriaco e la sedia colpì la base dello specchio che fece solo qualche oscillazione, allora con tutta la sua forza tirò un calcio allo specchio che si frantumò con gran fragore, si gustò quel momento liberatorio come osservasse la pioggia fresca bagnare la sabbia del deserto a mezzodì; cadde una delle candele che aveva acceso appena arrivato in soggiorno, candele che accendeva tutte le volte che cercava un po’ di tranquillità, fissava la fiamma della candela per molto tempo astraendosi dal mondo circostante, spesso odiava l’artificialità della luce elettrica così impersonale e fredda; in un attimo i grossi tappeti presero fuoco, insieme alle pareti tappezzate di quadri, quasi come fossero impregnati di benzina, Jacob sorpreso e completamente bloccato si fermò per alcuni istanti con lo sguardo perso nel vuoto finché le fiamme che ormai lambivano i suoi piedi non lo risvegliarono da quello stato d'incoscienza, così corse nella stanza adiacente dove le fiamme avevano già bruciato gran parte dei mobili, un'anta della finestra era caduta e così senza alcuna esitazione, forse attirato dal temporale e dalla pioggia che stava rinfrescando l'esterno, si lanciò nel vuoto dal terzo piano, qualche istante in volo sbattendo poi violentemente contro le mattonelle del cortile, il volto era piegato verso destra e un grumolo di sangue gli gocciolava dall'orecchio, non sentiva dolore, in quei pochi secondi di vita con gli ultimi sguardi coscienti si volse al terzo piano, non c'erano fiamme e la finestra da cui si era lanciato era spalancata e completamente intatta, sentì di nuovo un tonfo e un cigolare come quello di una porta, proprio come una ventina di minuti prima quando era ancora steso sul letto, forse aveva solo sognato, tutto poteva essere stato fortunatamente solo un incubo...un terribile e drammatico sogno di follia.

Nessun commento: