21 novembre 2008

Economia e musica


Il mondo della musica in Italia, come molte realtà imprenditoriali e soprattutto d'ingegno, è sottosviluppato, non ci sono incentivi per aiutare la cultura ad esprimersi e non c'è dinamismo, si preferisce fare qualche investimento solo su ciò che c'è già portandoci inesorabilmente verso una dolce e lenta morte sociale e culturale.
Colui che vuole mettere a frutto le proprie potenzialità deve occuparsi spesso di tutto quel mondo che sta intorno, non meno fondamentale; entro certi limiti è plausibile, soprattutto all'inizio, ma è inaccettabile nel lungo periodo perché porta a disperdere le energie in una serie di attività ed investimenti che dovrebbero svolgere altri in economia funzionale.

In Italia viviamo di coverband, è scandaloso. Dopo aver sentito le parole del direttore del Rolling Stone Carlo Antonelli, il quale ha fatto notare che nelle classifiche di vendita in Italia degli ultimi anni gli imperatori incontrastati sono solo gli anziani signori della musica, una voce interna mi ha suggerito che non ci resta che suonare per dio (magari anche bestemmiando) o per chi non ci crede per una bottiglia di Rum nei ritagli di tempo, a me il Rum non piace e nemmeno l'impronta benevola di dio mi sembra così presente in questo nostro mondo allegro.
In fondo la musica è tanto fiabesca quanto inutile per cui perché pensare all'arte quando quasi tutti i campi ad alta "genialità" sono in crisi in Italia, si pensi alla precarietà nella ricerca e alla fuga di cervelli, emblema della decadenza italiana.

Da quando i giovani in Italia hanno paura del futuro? Da quando le paure hanno sostituito le speranze? Da quando si chiede a un giovane di assumersi tutti i rischi e i costi di una professione grazie a contratti a progetto prolungati per anni, a datori di lavoro che consigliano l'apertura della Partita Iva ad uno che si appresta a svolgere il primo lavoro e che non conosce ancora nemmeno l'ambiente. Ora se il contesto permetterebbe la promozione dei meritevoli e anche con moneta sonante allora
il rischio è contemplabile (vuoi guadagnare di più prova a metterti in gioco), ma se il mercato è ingessato, la flessibilità s'intende solo come sistema per pagare meno tasse allora non si è capito molto ai piani alti di macroeconomia, di economia nel medio e lungo periodo, di modelli di società a cui ci si vuole ispirare.

Un appello ai musicisti, facciamo una cosa tutti insieme, riconvertiamo le nostre band a coverband e ammazziamo del tutto il futuro della musica italiana che vive solo sui nomi storici e sulla SIAE, ed è normale, visto che la popolazione italiana è sempre più vecchia, i giovani sono una fetta marginale ai fini del mercato economico ma anche politico (quello che i politici non dicono). Anzi facciamo una cosa, ammazziamo i giovani o perlomeno "Scattarriamoci sopra" come Manuel degli Afterhours, rendendo chiara la loro inutilità, la loro leggerezza dell'essere.

Non è comunque un mio problema quello dei giovani, io sono vecchio e maturo da quando ho 15-16 anni.
Questo è solo un approfondimento a braccio sul legame tra musica (cultura in generale) ed economia.

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