13 settembre 2010

Alle sibille e alle infiammate tonsille

Sto costruendo una casetta fuori dal tempo, dove si sente il silenzio del fermo-immagine, un istante lungo un amore, l'erbetta, le foglie al vento che ispira le nostre anime, le colline accucciate a poca distanza, i giganti buoni della Bibbia che hanno abitato la nostra terra.
Il profumo dell'essenza delle cose, infinite: sul tavolo in cucina l'atlante del Gran Khan. Stanotte non si va a letto, dobbiamo fare un giro, uscire dagli stati febbrili, perché volgarmente non tutti i mali vengono per nuocere. Dove andiamo stanotte amore?

Sai che l'altro ieri credo di aver parlato con una sibilla, umana, Aleramo. Mi ha predetto il passato, raccontandomi di Dino, quel poeta pazzo di cui si era innamorato nonostante tutto. Dentro di lui infatti c'era il disagio estremo, la disarmonia che provocava bombardamenti, deliri, poi apatia, immobilità, e poi di nuovo tempeste d'inadeguatezza, in un tremendo gioco di chi ha una sensibilità accentuata che punta a dubbi, domande e sentimenti che alle volte bisognerebbe censurare. Ma si sa, in fondo l'arte prende vita proprio dalle mancanze, dalla voglia di modificare la realtà rendendola a parole, a segni, gesti, magari creandone un'altra, una via di fuga, per abbandonare la fragilità, la finitudine della materia, sentendosi divini, forti, oltre il tempo.
Non fu certo per la sua scarsa attenzione alla pulizia del corpo che Dino venne rinchiuso all'ospedale psichiatrico Castel Pulci. Eppure lei vedeva l'amore, Dino ricambiava, quel Dino che se n'era andato su e giù per il globo terrrestre, in Sudamerica, in Argentina, in Germania, facendo sempre il girovago d'Italia, ma come disse qualcuno più tardi alla radio: “Non scappi da te stesso neanche se sei Eddy Merckx”. Puoi correre, correre tanto, ma affetti, ricordi, dolori e drammi si ripresenteranno se non li avrai mai saputi assimilare, ognuno a suo modo, a tu per tu con la sua coscienza, Aron Hector Schmitz.

E' sempre andata così, al piccolo Dante, morto prematuramente a cui dedicarono Funere mersit acerbo; a Calicchio, figlio di Zi Scarda; poi a San Lorenzo, il X Agosto 1896, c'era chi guardava le stelle, ma non come gli altri, lo faceva rammentando quel brutto ricordo d'infanzia del 1867, quando nel nido rimase solo un serpente, come esternazione del male umano; ad Isabella di Morra morta a forza di botte; a Guido Speier, poverino, non aveva più soldi per pagare i debiti, morto per un errore di calcolo; infine ad Angelo Vassallo a ricordarci che ancora si muore per principio, per ideali, troppo poco pratici e sconvenienti per molti.
Fantasia e realtà s'intrecciano, gli scrittori lo sanno: credete che la scrittura non sia reale? Come mai la diciturara ogni riferimento a persone e cose reali è puramente casuale? C'è addirittura chi pensa che le storie raccontate nei libri esistano in altre realtà spazio-temporali e che lo scrittore in qualche modo riesca a farsele dettare da chissà quale entità o musa ispiratrice.

Ma come si fa a continuare a vivere? La lezione è quella di abbandonarsi alla vita, mettersi in primo piano, come artefici del proprio destino e della propria originalità, anzi bisogna mettersi sopra l'uomo mediocre, quello che vive giorno per giorno, si spacca le ossa per guadagnare due soldi e comprare un bel computer, un cellulare, una macchina nuova, acquistando il futuro a debito.
In questo stadio evolutivo dell'uomo il lavoro non dovrebbe più esistere, se non come forza per spostare un oggetto dal punto A al punto B, forza impressa possibilmente da una macchina. Si dovrebbe poter guadagnare il pane quotidiano con l'intrattenimento, nessuno dovrebbe andare a pulire le cisterne, nessuno dovrebbe scendere nelle viscere della terra per cercare il rame, nessuno dovrebbe fare l'ausiliare del traffico, perché non dovrebbe esistere il traffico.

Alla fine la sibilla mi rivelò in un orecchio che pure il superuomo Gabriele, supereroe senza paura, pensava tra sé e le sue carte: “Vorrei dimostrare a mia madre che non credo in ciò che dico, che quello che la gente vede non ha nulla a che fare con le acque increspate della mia anima.”
La sibilla sapeva di aver aperto una voragine dentro di me, non voleva lasciarmi solo nella pineta in quella situazione di quiete prima della tempesta, sì perché ogni scroscio d'acqua dal cielo tende a diventare un disastro se si è soli. Bisogna essere pronti per la solitudine, altrimenti l'annegamento è più o meno lento ma certo. Così mi disse di tornare a casa, donandomi la speranza che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo e mi avrebbe raccontato della prima volta che vide Dino, di quanto cibo s'affanna a cercare l'uomo e di quanto poco in realtà ne ha bisogno per vivere decentemente.

All'alba risalii dalla pineta e mi ritrovai in giardino, ormai solo, o quasi, sul tappeto esterno dell'ingresso c'era il porcospino, quello del pianterreno, a cui piaceva il ragù, è diventato il nostro animale domestico. Dopo un giro della casa mi fermai ad osservare dalla finestra della camera da letto la mia metà dormire, chissà cosa stava sognando quella notte, in quale città invisibile era stata e se era già di ritorno.
Ci si perde spesso nelle città invisibili, ma non per sempre, e si ritorna comunque a casa, e ogni volta con qualcosa d'importante tra le mani, nulla di materiale.

Nella mia mente rimbalzavano i versi con cui se ne andò Sibilla:

Chiudo il tuo libro,
snodo le mie trecce,
o cuor selvaggio,
musico cuore…

con la tua vita intera
sei nei miei canti
come un addio a me.


Estratto “Sibilla Aleramo a Dino Campana, Mugello, 25-7-1916

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